Generale
La psicoterapia cognitiva comportamentale non cura “solo il sintomo”
la psicoterapia cognitivo comportamentale non cura solo il sintomo. Questo pregiudizio nasce in contrapposizione agli altri modelli che…
La terapia cognitiva comportamentale cura solo il sintomo?
Che vuol dire curare il sintomo?
L’altra volta un mio amico mi ha detto: “Sto cercando uno psicologo però non vorrei andare da un cognitivo comportamentale perché non ho un disturbo specifico, quindi non ho sintomi da curare. Mi piacerebbe di più parlare”.
Qualcosa di simile, il senso era questo.
Ma parlare di cosa del senso della vita? Dell’origine dell’universo?
Non credo.
Chi va dallo psicologo vuole risolvere il proprio disagio emotivo.
Se mi fa male una gamba e vado dal dottore, mica gli dico: “guarda, della gamba non mi interessa poi così tanto. Vorrei parlare dei sacramenti. Tu che ne pensi”.
Quindi,
dallo psicologo ci vanno le persone che vivono un disagio emotivo più o meno complesso, più o meno intenso e più o meno prolungato nel tempo.
Sulla psicologia e sugli psicologi ci sono tanti pregiudizi e tanti stereotipi, questo è uno dei tanti ed in particolare si rivolge agli psicologi psicoterapeuti specialisti in terapia cognitiva comportamentale.
Vorrei approfittarne per chiarire alcune cose.
La terapia cognitiva comportamentale non cura i sintomi ma la persona nella sua totalità.
La credenza che la psicoterapia cognitiva comportamentale si concentrasse eccessivamente nella cura del “sintomo” si è diffusa in contrapposizione alle cosiddette terapie del profondo, tipo la psicanalisi.
Ci sono stati anni in cui i modelli psicoterapeutici erano in forte contrasto ed anche in competizione tra loro.
Tra le fazioni i cognitivisti accusavano gli psicoanalisti di perdersi in chiacchiere con la scusa di fare terapie inconcludenti che duravano secoli ma che loro definivano necessarie per curare davvero la persona in tutta la sua complessità e profondità;
e gli psicoanalisti accusavano i cognitivisti o comportamentisti di fare terapie eccessivamente concentrate sui sintomi che funzionavano all’inizio ma che poi alla lunga la malattia sarebbe ricomparsa.
Da parte mia posso dire e confermare che il fatto che la terapia cognitiva comportamentale si preoccupa di curare solo il sintomo è assolutamente falso, oltre che farlo sarebbe inutile.
Credo che tutti i modelli psicoterapeutici ormai si approccino alla persona in quanto tale.
il “sintomo”, rappresenta il problema attivo presentato dal cliente paziente ed esprime la difficoltà, la criticità che si vorrebbe approfondire e risolvere.
Per esempio, non serve che la persona dica: “sono depresso e penso di volermi suicidare tanto tutto è inutile”, per identificare 2 sintomi: Umore basso e assenza di speranza. Il solo fatto di dire: “sono insoddisfatto, penso che mi manchi qualcosa ma non so esattamente cosa”, frase che ogni tanto potremmo pensare e dire tutti” è di per sé sintomatica perché esprime un disagio emotivo. Un disagio emotivo che può essere semplice e lineare o complesso e strutturato ed è da queste prime dichiarazioni che bisogna approfondirne origine e complessità.
Quello che dico sempre è: “cominciamo a raccontarci le cose più facili ed ovvie e poi se non dovesse bastare, approfondiremo senza cadere in facili e magiche interpretazioni.
Esattamente come ispira il principio del rasoio di Occam che alla fine è il principio che orienta la scienza.
Ne hai mai sentito parlare? Te lo racconto brevemente. Ce ne sono mille versioni ma sinteticamente la storia è questa: una volta un signore ha trovato un oggetto dalla forma strana durante degli scavi archeologici e allora tutti gli archeologici, storici e filosofi del mondo si sono riuniti per capire cos’era. Qualcuno diceva è uno strumento di misurazione del tempo, qualcun altro addirittura diceva che serviva ad aprire un portale extra dimensionale per gli alieni. Alla fine, ad un certo punto uno dice: “Signori, è un rasoio. Rilassatevi. Questa pietra prima era affilata e la usavano per farsi la barba”.
Posso confermare che “il profondo” se necessario, è approfondito pure dai comportamentisti, nel momento in cui fanno un’analisi e una valutazione delle esperienze di vita precoci che se particolarmente spiacevoli, hanno potuto predisporre, determinare e condizionare negativamente la crescita della persona.
In ogni caso,
smettiamola di cadere nel tranello fomentato ultimamente pure dai vari counselor e coach che dicono che dallo psicologo ci vanno quelli che hanno un disturbo psicologico preciso mentre da loro ci vanno quelli che vogliono parlare di come diventare campioni ricchi e forti.
A parte che non sarebbero capaci di riconoscere chi ha un disturbo psichiatrico da chi non ce l’ha, queste persone giocano a fare gli psicologi esercitando abusivamente la professione.
Ma va bene così, andiamo dove vogliamo. Sono secoli che nella maggior parte dei casi basta andare dal prete o nei casi peggiori dal barbiere.
Generale
Cos’è la personalità e come funziona
Cosa sono di disturbi di personalità? Quando una personalità è disturbata?
La differenza tra personalità equilibrata e disturbata
Parliamo di cose serie e forse un po’ difficili.
Ci racconteremo come funziona la tua personalità. Ti do subito una brutta notizia: non assomigli ne ad un cavallo, ne ad una tigre, ne ad una farfalla.
La bella notizia è che a prescindere da quello che ti hanno raccontato o che hai creduto fino ad oggi: una personalità ce l’hai; è impossibile non averne.
è impossibile non avere una Personalità
L’unica certezza è che puoi avere una personalità più o meno equilibrata o più o meno disturbata.
Sintesi velocissima:
La psicologia è la scienza che studia i comportamenti degli esseri umani. Esattamente come gli etologi studiano il comportamento degli animali. Fare l’etologo è più facile solo perché gli animali non si sopravvalutano e non pensano di essere importanti.
Alcuni comportamenti sono direttamente osservabili dagli altri, cioè quello che le persone fanno; e altri non sono direttamente osservabili dagli altri: quello che le persone pensano e provano emotivamente.
La nostra personalità è il modo abituale che adottiamo per fare esperienza: come ci comportiamo, come pensiamo, che tipo di emozioni tendiamo a provare prevalentemente.
In poche parole, è impossibile non avere una personalità. Dire: “quella persona non ha personalità non significa niente”.
Andiamo con ordine:
da cosa è formata la personalità?
La personalità è formata dai nostri tratti, dal nostro temperamento e dal nostro carattere.
A livello scientifico, si è concordi nell’affermare che i tratti sono biologicamente determinati ed ereditabili esattamente come il colore dei nostri capelli.
“tutte sciocchezze, Io sono del Saggittario”.
I tratti dovrebbero essere le parti più semplici della nostra personalità e sono molto pochi: l’introversione, l’estroversione, la stabilità emotiva, l’apertura mentale, la dinamicità e qualche altro.
Il temperamento si forma mettendo insieme più tratti ed il carattere e il risultato del temperamento in interazione con l’ambiente. Non mi ricordo se in latino o in greco, temperare significa appunto mescolare. Come i colori a tempera che possono essere facilmente mescolati per creare colori diversi.
Ad esempio, una persona tendenzialmente introversa ed emotivamente instabile potrebbe avere un temperamento evitante e pertanto facendo continue esperienze punitive potrebbe strutturare un carattere diffidente e restio alle nuove esperienze in modo da tutelare il proprio equilibrio emotivo.
Ognuno di noi pertanto rimodula, quando è opportuno, il proprio carattere sulla base delle esperienze di vita. Questa cosa qui invece non avviene, o avviene male, a fronte di gravi disturbi della personalità. In poche parole una personalità “disturbata” tende a far fare sempre le stesse cose, anche senza risultati desiderabili, a prescindere dalle interazioni con l’ambiente circostante.
La nostra personalità ha lo scopo di favorire e ottimizzare le nostre esperienze di vita positive assecondando le nostre predisposizioni biologiche.
La stessa personalità, se funziona abbastanza bene, ci migliora la qualità della vita.
Attualmente, studiosi e ricercatori sono pertanto d’accordo e ci dicono di cominciare ad evitare di parlare di personalità attraverso etichettature.
In passato si è abusato di etichette che se da una parte erano utili a condividere concetti tra i professionisti, dall’altra hanno perso di vista l’individualità delle persone trascurando sfumature indispensabili utili a promuoverne il cambiamento. La cosa che stava andando fuori controllo è che molte etichette erano prive di accurato approfondimento scientifico.
Com’è fatta quindi una personalità equilibrata e che funziona abbastanza bene?
Di nuovo, Gli scienziati che approfondiscono queste tematiche sono attualmente d’accordo nell’identificare due dimensioni principali:
- quella che riguarda il rapporto con sé stessi;
- quella che riguarda il rapporto con gli altri.
Per quanto riguarda il rapporto con sé stessi, una persona con una personalità equilibrata dovrebbe avere le idee abbastanza chiare circa la propria identità, i propri desideri ed il modo in cui ci si può realizzare in questa vita. Ognuno di noi dovrebbe praticamente sapere chi è, cosa vuole e cosa può fare per ottenerlo. Oltre ad identificare bisogni e desideri; inoltre, dovrebbe avere le idee abbastanza chiare su “come” poter soddisfare le sue esigenze senza compromettere la propria incolumità né quella altrui.
E qui entrano in gioco gli altri. Nel soddisfare i propri scopi, ci si rende conto che esistono anche gli altri? Si comprende che gli altri hanno anche i loro bisogni che possono essere diversi dai propri? Si è capaci di comprendere e accettare gli stati emotivi altrui?
Che tipo di intimità si riesce ad avere nelle relazioni con gli altri? Si è capaci di modulare la distanza relazionale sulla base del ruolo ricoperto e delle aspettative reciproche? Si è capaci di comprendere che ogni relazione è diversa dalle altre? In che modo vengono instaurate nuove relazioni? E per quale motivo? Ecc.….
Ogni volta che la risposta a queste domande produce comportamenti non desiderabili e che compromettono la qualità della vita, possibilmente siamo di fronte a persone con la personalità che non funziona benissimo e per questo motivo qui possiamo descrivere le persone come: antisociali, dipendenti, narcisisti, o in altro modo.
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Grazie
Generale
Felicità: la vera ricetta
Essere felici è possibile. Scopri le 5 caratteristiche fondamentali delle persone felici approfondite dalla psicologia positiva.
“la felicità non esiste”
Forse anch’io l’avrò detto troppe volte, prima, non recentemente.
Dire che la felicità non esiste è stupido.
Proveremo pertanto a descrivere cos’hanno in comune le persone felici e come essere felici pure noi.
È altrettanto inutile dire che ci sono persone felici in quanto tali, esattamente come è riduttivo dire che ci sono persone depresse per il semplice fatto che “gli è venuta la depressione”.
Essere felici significa vivere prevalentemente emozioni positive.
Essere depressi significa vivere prevalentemente emozioni negative.
Le emozioni però non vengono come un raffreddore, sono determinate sia da quello che ci succede e sia da quello che facciamo, da quello che pensiamo di noi stessi e di quello che pensiamo del mondo e degli altri.
Certe volte le persone mi dicono: “la felicità è una cazzata. Nessuno è davvero felice”. Fortunatamente non è vero. Quando, insieme, capiamo che non è vero, all’inizio ci si sente ancora più feriti e falliti ma questo è importante per ritrovare nuovi slanci e nuove motivazioni.
La verità è che è possibile essere felici, ovvero vivere emozioni positive reali e sentimenti di benessere a lungo termine.
È vero, la felicità non è eterna. Non è uno stato che una volta raggiunto dura per sempre. È davvero più facile essere tristi che essere felici. Per essere tristi basta non fare, per provare gioie invece bisogna fare qualcosa.
Come se non bastasse, a quel qualcosa ci abituiamo e dopo poco, non ci basta più. Subito, dobbiamo fare o avere qualcos’altro.
Ci sono inoltre persone che provano gioia non quando riescono loro in qualcosa, ma quando gli altri falliscono in qualcosa, ma questo l’approfondiremo in un altro contributo, quando parleremo dell’invidia.
Stavolta ci concentreremo su come possiamo essere felici noi, grazie a noi.
Alcuni psicologi dedicano le loro ricerche al le persone felici. Si chiedono, cos’è la felicità? Quando le persone sono felici? Cosa fanno le persone felici? Ecc.…
Il più famoso di tutti è sicuramente Martin Seligman, uno psicologo americano.
Ancora, per molti, nell’immaginario collettivo gli psicologi sono quelli che studiano esclusivamente il malessere e le fonti di malessere.
La psicologia approfondisce sia il malessere che il benessere. Si interviene sia per fare stare meno male, sia per fare stare bene; e non è la stessa cosa.
Per stare meno male basta guardare la tv o prendere una pillola… ma cosa fanno le persone che stanno bene e vivono condizioni di benessere diffuso?
Come essere felici?
Le ricerche ci dicono che queste persone felici fanno fondamentalmente 5 cose:
La prima è banalissima. Lo sanno tutti.
- Fare attività piacevoli;
Facile. Non c’è una cosa che vale per tutti. Basta sapere che non posso essere felice se non faccio cose che mi piacciono anche senza motivo e senza valore. A me piace suonare. Quando suono ho gioia. Per te potrebbe essere ballare, truccarti, cantare, abbronzarti, guardare le partite in tv. Insomma qualsiasi cosa. Non lo so. Per questo alcuni lavorano e suggeriscono danza terapia, ippoterapia, pizza terapia, ecc.… In poche parole, è “terapeutico tutto quello che ci piace fare” per il semplice motivo che lo facciamo e mentre lo facciamo. Alcune cose piacciono quasi a tutti.
Questo però non basta. Non possiamo passare la nostra vita a fare cose “effimere”. Non saremmo davvero felici in modo complesso e duraturo ma rincorreremmo sempre la “felicità”.
È quindi importante…
- Fare attività gratificanti;
Le attività gratificanti sono tutte quelle attività che mentre le facciamo possono pure annoiarci o irritarci: lavorare, andare in palestra, seguire una dieta, cucinare, …, tutte attività che però quando le finiamo ci sentiamo meglio e fieri di noi. La gratificazione è quella sensazione piacevole determinata dalla percezione che i nostri comportamenti stanno andando verso la direzione giusta ed utile.
Queste attività, ad un certo punto, se sovrapponibili alle attività da piacere effimero, possono anche condurci nel cosiddetto stato di “FLOW”, stato in cui siamo talmente assorbiti da non percepire più il tempo che passa. Può succedere che le attività annoianti nella fase iniziale, diventano piacevoli col trascorrere dell’impegno.
È importante sottolineare che le attività da gratificazione non sono più utili delle attività da piacere effimero. Sono utili allo stesso modo.
Dedicandoci esclusivamente alle attività da gratificazione ci mancherebbe quel pezzo di vita caratterizzato da leggerezza, spensieratezza, sorriso e semplicità.
A proposito di semplicità, essere persone semplici non è una giustificazione.
Dichiararsi persone semplici è forse troppo spesso una giustificazione morale per la propria pigrizia.
Nell’accezione di semplice si nasconde sempre una velata frustrazione e una condanna “morale” verso le persone che “semplici” non sono.
Personalmente amo la semplicità e ritengo di essere una persona semplice. Sono così semplice che come tutti, solo con questi due tipi di comportamenti mi annoierei.
Per essere felice mi servono anche i comportamenti del terzo tipo:
- Raggiungere risultati oggettivi;
le persone per costruire la loro felicità hanno bisogno di raggiungere risultati. Finire percorsi di formazione, essere promossi sul lavoro, vincere un premio, finire la dieta, vincere una gara, ecc.…
Queste attività sono fondamentali perché giustificano davvero le nostre frustrazioni ed i nostri sacrifici. È nella natura delle persone.
Ad un certo punto, quando le persone riescono a godere dei loro successi, hanno però bisogno di portare la loro felicità ad un livello più alto. Le sensazioni piacevoli sono come una droga, e quando si entra nel circolo del piacere è un po’ come entrare nel baratro della tristezza prima e della depressione dopo.
Ad un certo punto le persone capiscono quindi che per consolidare la loro felicità, devono:
- Dare un senso a quello che si fa;
Si può essere il miglior calciatore del mondo, si può vincere la Champions League ed essere super pagati, se però non si dà un nobile senso a quello che si fa, allora ci si potrebbe rattristare e cominciare a chiedersi: “ma tutto questo a che serve”. I
Il modo più semplice e forse più utile per dare senso a quello che facciamo è quello di essere utili agli altri. Per questo ad un certo punto le persone fanno “opere di bene”, beneficienza, volontariato, ecc.…
Non sono le religioni, è scritto nel DNA di tutti gli esseri umani non psicopatici. Per stare davvero bene dobbiamo fare del bene. È più forte di noi. Per questo motivo sentiamo: “Bill Gates va in Africa a costruire di tutto”; “medico super affermato va in Africa a lavorare Gratis”; ecc.…
In ultimo, ma forse il più importante è che la maggior parte delle persone di questo mondo, non possono essere felici se sono sole. La cosa più importante per essere felici è quindi:
- Stare con gli altri e condividere le proprie gioie.
Ci tengo a precisare che questo contributo non è una sciocchezza.
Questa estrema sintesi è il risultato di anni di ricerche serie. Possono sembrare banalità e forse per molti banalità lo sono.
Ognuno può costruire la propria felicità con le proprie attività. Non necessariamente dobbiamo essere capaci di cambiare il mondo. Cambiare il mondo non serve per essere felici e nemmeno diventare ricchi.
Ognuno di noi può fisiologicamente trovare il proprio benessere con le proprie attività e le proprie potenzialità. Stare bene è possibile.
Dire: “la felicità non esiste” è falso e non è neanche più così consolatorio.
Quello che dovremmo tutti noi dirci è: “essere felici è possibile. Ho questa vita. Mi va di provare ad essere felice? Cosa posso fare per esserlo?”.
Alla fine moriremo lo stesso e per come la vedo io, non avremo altre occasioni per esserlo.
Generale
Empatia senza Poesia
L’empatia è solo la capacità di saper decodificare gli stati emotivi altrui.
Come stai davvero. Bene e male sono risposte sbagliate.
Tu riesci a capire come stai e perché? Riesci a capire come stanno gli altri? Sei empatico?
Apposto? apposto.
Questa parola ha sostituito direttamente la domanda e la risposta. Apposto? Tutto apposto.
Prima si diceva: “come stai?”.
Ma come stai? Bene, male? Neanche bene e male sono risposte. Quando ti chiedo come stai, voglio sapere come stai. Cosa provi. Sei preoccupato e provi ansia? Sei triste? Sei arrabbiato? Cosa provi. Ti annoi? Che tu riesca a capire come stai davvero è importante: soprattutto per te.
La cosa grave è che forse non lo sai neanche tu. Essere nervosi non significa niente. Sono nervoso. Ma che vuol dire. Quando le persone mi dicono: “sono nervoso” la prima cosa che faccio è capire cosa vogliono dirmi davvero. Essere nervosi presuppone una generica condizione di tensione emotiva. A Palermo si dice “sugnu niirbusu”. Lo diciamo quasi per tutto. Ok, ma cosa proviamo. Apposto? Apposto.
Oggi si parla tanto di empatia e della necessità che le persone siano empatiche.
Tutti dicono: “ci vuole empatia”; “l’empatia è diversa dalla simpatia”. Aspetta un attimo.
Sono stressato. Altra espressione abusata. Siamo tutti stressati. Lo stress non è altro che uno stato generico di tensione emotiva. Ogni volta che la nostra mente ci dice: “devi fare qualcosa” e non sappiamo esattamente cosa fare, in quanto tempo e come, allora ci sentiamo stressati. Poi approfondiamo anche questo.
Allora, COME STAI?
Se non capisci come stai tu, come puoi capire come stanno gli altri.
Solo quando le persone hanno un problema neurologico riguardante la capacità di regolare e riconoscere la propria emotività è accettabile che dicano: “sono nervoso”. Anche se piano piano, si impara anche in questi casi a descrivere le proprie sensazioni attraverso il riconoscimento dei propri pensieri. Essere poco capaci di saper descrivere la propria emotività è in realtà, molto spesso, un problema educativo.
Noi impariamo a dire: sono nervoso, sono triste, sono arrabbiato; e certe volte impariamo anche quando esserlo e come esprimere le nostre sensazioni sulla base di quello che ci hanno insegnato i nostri genitori.
Sono i nostri genitori che riconoscendo i nostri stati emotivi quando siamo piccolissimi, cominciano a sostituire quelle sensazioni con le parole giuste. Almeno si spera. Capita invece, che alcuni genitori possano uscirsene con generici: “è nervoso”. Altri ancora invece possono inibire l’espressione emotiva, considerandola qualcosa di poco accettato e socialmente compromettente.
Allora, torniamo a noi, ogni volta che stiamo bene o che stiamo male facciamo riferimento a condizioni emotive di benessere o di malessere; di sensazioni piacevoli o spiacevoli. Non si scappa. Anche quando ci rompiamo una gamba e diciamo di stare male perché abbiamo una gamba rotta in realtà stiamo descrivendo un nostro stato emotivo determinato dalla gamba rotta.
Come ti fa sentire quella gamba rotta: arrabbiato? Triste? Preoccupato? Addolorato? Vergognato?
Adesso parliamo di gamba rotta, ma tu sai di che stiamo parlando veramente. Lo so.
E quindi, l’empatia?
Cos’è l’EMPATIA?
L’empatia è fondamentale per migliorare le nostre relazioni, il nostro benessere e la nostra qualità della vita.
Tutti ci dicono che l’empatia è quella capacità di riconoscere le emozioni altrui anche quando non le stiamo provando noi. Tutti dicono che l’empatia è quella capacità di sentire quello che provano gli altri senza però identificarci.
L’Empatia con l’identificazione è SIMPATIA.
Simpatia significa etimologicamente “soffrire con…”, siccome proviamo la stessa cosa e pensiamo la stessa cosa allora ci facciamo simpatia. E l’empatia?
L’empatia è solo un sistema di decodifica degli stati emotivi altrui.
Essere empatici non significa essere buoni e non essere empatici non significa essere cattivi.
L’empatia è solo una funziona della nostra mente e come ogni funzione può essere allenata e raffinata.
Come ogni abilità può essere usata per fare del bene e per fare del male.
Considera che i truffatori hanno ottime capacità empatiche in modo da poter manipolare i processi di identificazione e fiducia degli altri; per non parlare che certe volte si dice che gli psicopatici non provano empatia. Secondo me questa cosa è totalmente falsa. Gli psicopatici provano semplicemente piacere nel percepire la sofferenza altrui e ed è pura empatia.
Se riusciamo a capire lo stato d’animo altrui e la relativa emotività possiamo non solo essere di maggiore supporto ma possiamo anche anticiparne i comportamenti.
Se sono empatico capisco esattamente come ti stai sentendo e perché, ciò non significa che devo essere d’accordo con te. L’importante è che capisco cos’hai. Fondamentale. Capire cosa provano le persone è fondamentale per non incorrere a fraintendimenti ed ulteriori disagi o conflitti.
Perché c’è questa mancanza di empatia in giro?
Prima di tutto perché, a volte, le persone hanno difficoltà a riconoscere e descrivere i loro personali stati emotivi.
Secondo, se hanno questa difficoltà, figuriamoci se sono capaci di riconoscere e descrivere gli stati emotivi altrui.
La psicologia cognitiva studia il pensiero che determina comportamenti ed emozioni. Ad esempio,
Molto sinteticamente:
- Sei triste quando pensi di aver perso qualcosa;
- Sei ansioso quando pensi che qualcosa potrebbe andare storto;
- Sei arrabbiato quando pensi che qualcuno ha violato una regola;
- Ti vergogni quando temi che qualcuno possa disapprovarti;
- Provi gioia quando pensi di aver avuto una cosa in più;
- Sei sorpreso quando pensi che sia capitato un evento positivo inaspettato;
- Sei geloso quando pensi che qualcosa di solo tuo possa essere usato o danneggiato dagli altri;
- Sei invidioso negativamente quando pensi che qualcuno sta godendo di qualcosa che non si merita e tu che te la meriti invece non ce l’hai;
- ecc.…
Quello che posso suggerirti è.
Prima di tutto impara a capire come stai tu davvero. Solo così puoi cominciare a capire come stanno gli altri e perché stanno in quel modo.
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