Psicologia clinica
Ansia da Prestazione
Cos’è l’ansia da prestazione? Come si gestisce e si supera l’ansia da prestazione? Che differenza c’è con l’ansia e la fobia sociale?
In ambito sociale, lavorativo, familiare, amicale, romantico, sessuale, …
L’altra volta una signora mi ha detto di soffrire a causa dell’ansia da prestazione e ho pensato di fare un approfondimento.
Non so esattamente quale sia la natura del suo disagio, ne la causa. Ne parleremo in modo molto generico in modo che ognuno possa servirsene come più crede utile, ricordandoci che questi articoli non hanno la pretesa di essere colloqui psicoterapeutici online ne tanto meno l’ambizione di proporsi consulenze psicologiche personalizzate.
L’unica cosa che mi ha detto frettolosamente è: “mi tremano le mani per l’ansia quando ad esempio faccio il caffè agli amici perché penso che mi tremeranno le mani”.
Mani e caffè saranno solo un pretesto.
Ansia da prestazione.
Due parole: Ansia e prestazione.
L’ansia è quello stato emotivo spiacevole determinato dalla sensazione, dalla consapevolezza, dalla percezione che qualcosa potrebbe andare storto e magari danneggiarci.
La prestazione è un comportamento.
La prestazione è un comportamento con uno scopo specifico, in un contesto specifico e si basa su competenze più o meno complesse e strutturate.
Fare il caffè agli amici in questo caso è la prestazione. Lo scopo è fare in modo che gli amici si prendano il caffè. In quale contesto? A casa propria.
E che ci vuole?:
“E se mentre glielo sto portando mi tremano le mani e glielo butto tutto addosso?”;
“E se mentre penso che potrebbero tremarmi le mani, le mani mi tremano proprio perché penso che mi tremeranno le mani?”
Ansia.
La fregatura dell’ansia è proprio questa.
L’ansia, o per meglio dire lo stress, che in questo caso è rappresentato dall’ansia, è fondamentale per attivare ogni nostro comportamento. Senza tensione non facciamo niente. Ogni nostro comportamento ha bisogno di un qualche stimolo emotivo, altrimenti ci annoiamo. La noia è l’assenza di ogni tensione e a lungo andare è anche peggio.
Per fare le cose abbiamo bisogno di emozioni e le cose a loro volta ci fanno emozionare.
Per studiare per un’interrogazione non ci serve un po’ d’ansia? Certo che ci serve. Altrimenti non studieremmo o lo faremmo in modo troppo rilassato. La fregatura è che quando l’ansia è troppa anziché facilitare la nostra prestazione, la ostacola causando prima estreme sensazioni spiacevoli come il panico e la rabbia e poi il cosiddetto esaurimento.
Guarda questo grafico.
Dobbiamo sapere che l’ansia da prestazione non è ansia sociale, ne fobia sociale anche se potrebbe sfumare con entrambe.
Se non l’hai fatto, poi guarda il video su ansia e fobia sociale.
L’ansia sociale è determinata dalla credenza di non essere all’altezza, di essere in qualche modo fatti sbagliati.
L’ansia sociale ci fa sentire inadeguati per delle nostre caratteristiche personali.
La fobia sociale invece è determinata dalla credenza che sono gli altri ad essere pericolosi a prescindere dalle nostre caratteristiche.
Magari le due cose possono anche andare insieme.
Comunque,
l’ansia da prestazione trova il suo nucleo, non tanto nelle nostre caratteristiche personali, ne nelle caratteristiche degli altri, ma quanto nelle nostre abilità.
Non conta come siamo fatti, ma quello che sappiamo fare e che facciamo. O meglio, nella credenza di quello che sappiamo fare o potremmo fare.
Per concludere,
Abbiamo una situazione-contesto che ci richiede una prestazione.
Nel nostro caso, ci sono degli amici a casa nostra che desiderano un caffè.
Questa cosa la possiamo chiamare situazione antecedente (A).
Rappresenta lo stimolo al nostro comportamento, alla richiesta di prestazione. Prestazione che avrà delle conseguenze (C).
Fin qui tutto sembra facile.
- Gli amici a casa vogliono un caffè;
- Faccio il caffè;
- Bevono il caffè;
- Grazie a tutti.
L’unico problema potrebbe sorgere se il caffè non lo so fare. L’unico problema potrebbe sorgere se non ne ho la competenza.
Siamo portati a credere che la competenza sia saper fare cose, ed è sbagliato.
La competenza non è saper fare cose. Saper fare cose è la nostra abilità.
Cos’è la competenza?
La competenza è la capacità di ottimizzare risorse specifiche, in un contesto specifico per raggiungere uno scopo specifico.
Praticamente nella prestazione, la nostra competenza è la capacità di mettere insieme quello che serve per fare quello che dobbiamo fare.
Parole chiavi sono: contesto, risorse e scopo.
Quando dico che mentre faccio il caffè agli amici ho paura che mi tremano le mani, di qual è risorsa dubito non avere il controllo? Del mio corpo. La risorsa più importante. Oppure potrei pure avere una caffettiera scarsa. O finisce il gas. Ecc… ecc… sono tutte risorse ottimizzate dalla mia competenza di fare il caffè.
Ma questo basta? No, non basta perché io il caffè lo faccio in un contesto.
Farlo a casa mentre sono da solo e lo stesso di farlo a casa con gli amici? Per molti si, per altri no, per altri cambia tutto.
E quindi, cosa cambia?
Tra A e C, tra la situazione antecedente, la prestazione e la conseguenza, ci sono i nostri pensieri, le nostre credenze, che cambiano la percezione di quello che sta succedendo e che dobbiamo fare caricando la prestazione di significati e di rappresentazioni.
Per capirci:
fare il caffè è fare il caffè? No, fare il caffè, certe volte significa, fare il CAFFÈ.
Fare l’esame all’università non è solo leggere un libro, impararne i concetti chiavi e andare a raccontarli al professore.
Questo è facile, è meno facile riconoscere quello che sostenere un esame rappresenta: il proprio futuro, la propria reputazione o magari la stima dei nostri genitori.
Secondo te, la prestazione di un calciatore, a parità di abilità tecnica e di livello di difficoltà della squadra avversaria, non è influenzata dal contesto della partita? La stessa partita, in contesto amichevole o in contesto da Champions League, è la stessa partita? Certo che no. Nel secondo caso, non ti giochi un risultato, ti giochi la gloria.
Cosa rappresenta questo caffè?
Cosa penso mentre lo devo fare. Che devo fare solo un caffè o che mi sto giocando le mie amicizie? La mia dignità, la mia reputazione?
Cosa succede se mentre lo sto servendo, il caffè cade a terra o nella peggiore delle ipotesi lo verso addosso al mio amico.
Mi spara? Mi denuncia? Non mi parla più?
Ognuno di noi certe volte sovraccarica di significato quello che sta facendo.
Certe volte tendiamo a percepire le richieste del contesto come se fossero da Champions League, certe volte sottostimiamo la nostra competenza e certe volte attribuiamo potenziali conseguenze catastrofiche a quello che potremmo sbagliare.
Proviamo però a ricordarci che la vera catastrofe sarebbe che se mentre facciamo quel caffè, un terremoto devasta la nostra città, uccidendo tutti i nostri cari.
Psicologia clinica
Noia, Angoscia e Disperazione
Cos’è la noia? Cos’è l’angoscia? Cos’è la disperazione? Perchè la noia può determinare un angosciante senso di vuoto?
Scusatemi. Mi dispiace. La settimana scorsa non sono riuscito a pubblicare il contributo settimanale. Sono un po’ incasinato e ho poco tempo.
Mi sono però venute in mente alcune cose:
Noi siamo fatti per fare cose.
Gli esseri umani devono fare cose.
È la nostra natura. Non siamo più scimmie che amano stare sugli alberi a masticare foglie. Non ci possiamo fare niente. È vero che quando abbiamo troppe cose da fare, ci stanchiamo e magari diventiamo stressati e insofferenti, ma è anche vero che quando non abbiamo niente da fare per un bel po’ soffriamo di più: soprattutto se ci sentiamo anche soli.
Da sempre le persone, all’interno delle loro comunità sono sempre state abbastanza impegnate. Il tempo per dormire non è mai stato abbastanza. C’era sempre qualcuno che doveva andare al fiume a lavare i panni, qualcuno che doveva riparare il tetto di paglia e qualcun altro che doveva attraversare la foresta per portare buone o brutte notizie. Praticamente l’evoluzione sociale ha portato l’umanità a capire come fare meno cose per stancarsi di meno e per questo certe volte i figli non sono mai stati abbastanza. Forza lavoro semplice da mandare o a zappare o in guerra. Ora, dopo 200mila anni di storia ci è quasi riuscita. Ma qui viene il bello. Perché se abbiamo sempre lottato per farci sfruttare il meno possibile, adesso il problema è opposto, nessuno sembra volerci più sfruttare e stiamo diventando praticamente inutili.
la cosa ancora più brutta è che se non abbiamo niente da fare ma gli altri invece qualcosa sembrano farla, è ancora peggio, perché siamo anche soli.
L’altra volta ero in macchina e alla radio passa una canzone, che fa così:
“ti ricordi quell’estate, in modo anche se pioveva, e poi se tornerai, riconquisteremo il mondo”.
Lo so, è una canzone degli 883, ma mi sono commosso lo stesso. Che ci posso fare.
Mi era tornato in mente un mio carissimo amico che non so per quale motivo non frequento più. Cioè, credo che ad un certo punto della sua vita abbia deciso che non c’era più motivo di frequentarci. Non abbiamo mai litigato.
E poi una dietro l’altra ho pensato a tutte quelle persone che ci hanno lasciato, anche io avevo nonni fantastici. Insomma, ho pensato a tutte quelle persone che ogni tanto la loro assenza ci fa sentire un po’ più soli.
Nessuna attività da fare + nessuna persona da incontrare = CATASTROFE.
Ti capita? Certo che ti capita.
Ed è un problema.
Questa volta vorrei parlare di questa cosa.
Ok, la conosci le passanti di Fabrizio de Andrè? No, non la conosci.
Immagini care per qualche istante
Sarete presto una folla distante
Scavalcate da un ricordo più vicino
Per poco che la felicità ritorni
È molto raro che ci si ricordi
Degli episodi del cammino
Ma se la vita smette di aiutarti
È più difficile dimenticarti
Di quelle felicità intraviste
Dei baci che non si è osato dare
Delle occasioni lasciate ad aspettare
Degli occhi mai più rivisti
In queste due strofe c’è praticamente tutto. Il passato, con tutta la sua malinconia, lascia piacevolezza. Tristezza piacevole.
Non è il passato che condiziona il nostro stato emotivo presente, ma è il nostro presente che condiziona il nostro stato emotivo presente. È la spiacevolezza del presente che ci fa idealizzare il passato.
Ti ricordi quando ci siamo raccontati che lo stress è uno stato di tensione emotiva?
Ogni volta che abbiamo qualcosa da fare, perché la dobbiamo fare, siamo più o meno stressati in modo piacevole o spiacevole. Tutto quello che facciamo serve a riportarci ad un sopportabile o piacevole equilibrio emotivo. Giusto? Giusto.
Cosa succede quando non abbiamo niente da fare?
Ci annoiamo.
La noia non è altro che uno stato personale totalmente privo di ogni tipo di tensione emotiva. Sei, triste? No. Sei Felice? No. Sei arrabbiato? No. Hai paura? No. Perfetto. Sei annoiato.
La noia è anche bella. Hai in mente quando facciamo qualcosa di importante? O raggiungiamo un obiettivo significativo? Bene. Dopo la gratificazione iniziale, quella che segue è una fase di noia. Bellissimo. Quello stato in cui tutto sembra non avere importanza. Siamo soddisfatti e ci godiamo il bel niente. Magari mettiamo un disco che non mettevamo da un bel po’ perché non avevamo neanche il tempo di pensare che l’avevamo ancora.
Bellissimo.
Ma che succede quando questo stato di noia è eccessivamente prolungato?
Cominciamo ad avvertire il vuoto.
Il vuoto emotivo non è altro che uno stato prolungato di noia. Uno stato in cui non solo non facciamo niente, ma non abbiamo un piano, un programma, delle aspettative. Mamma mia.
Bruttissimo.
La fregatura delle fregature è che il vuoto può diventare angoscia e l’angoscia è devastante.
L’angoscia è quel peso insostenibile fatto di vuoto, disperazione e ansia.
Una tristezza profonda determinata dalla sensazione di non avere niente, nemmeno la speranza.
E l’ansia determinata dalla sensazione di non avere possibilità o capacità di poterne uscire fuori.
E quindi che si fa. Come che si fa. Non ci stiamo cominciando a capire?
Fai qualcosa. Cosa? Qualsiasi cosa mannaggia. Non lo sai? Lo so.
Almeno comincia a pensarci.
Serve un piano.
Anche perché il rischio è che la fase successiva sia cominciare a pensare al suicidio e poi cominciare seriamente a prenderlo in considerazione. Cioè il suicidio sembra una via d’uscita e paradossalmente il piano per la nostra vita diventa pianificarne la fine. Non scherziamo.
Hai mai avuto il commodore 64? Io si. Ogni tanto mi ricordo quanto era bella giocare col commodore, ma diciamoci la verità i giochi facevano schifo. Erano bellissimi ma rispetto a quelli di ora, facevano schifo. Cioè solo chi non si gode la realtà continua a credere che era meglio prima.
Io i nonni non li ho più però quando guardo i miei figli con i miei genitori mi rendo conto che sono tornati.
Generale
La psicoterapia cognitiva comportamentale non cura “solo il sintomo”
la psicoterapia cognitivo comportamentale non cura solo il sintomo. Questo pregiudizio nasce in contrapposizione agli altri modelli che…
La terapia cognitiva comportamentale cura solo il sintomo?
Che vuol dire curare il sintomo?
L’altra volta un mio amico mi ha detto: “Sto cercando uno psicologo però non vorrei andare da un cognitivo comportamentale perché non ho un disturbo specifico, quindi non ho sintomi da curare. Mi piacerebbe di più parlare”.
Qualcosa di simile, il senso era questo.
Ma parlare di cosa del senso della vita? Dell’origine dell’universo?
Non credo.
Chi va dallo psicologo vuole risolvere il proprio disagio emotivo.
Se mi fa male una gamba e vado dal dottore, mica gli dico: “guarda, della gamba non mi interessa poi così tanto. Vorrei parlare dei sacramenti. Tu che ne pensi”.
Quindi,
dallo psicologo ci vanno le persone che vivono un disagio emotivo più o meno complesso, più o meno intenso e più o meno prolungato nel tempo.
Sulla psicologia e sugli psicologi ci sono tanti pregiudizi e tanti stereotipi, questo è uno dei tanti ed in particolare si rivolge agli psicologi psicoterapeuti specialisti in terapia cognitiva comportamentale.
Vorrei approfittarne per chiarire alcune cose.
La terapia cognitiva comportamentale non cura i sintomi ma la persona nella sua totalità.
La credenza che la psicoterapia cognitiva comportamentale si concentrasse eccessivamente nella cura del “sintomo” si è diffusa in contrapposizione alle cosiddette terapie del profondo, tipo la psicanalisi.
Ci sono stati anni in cui i modelli psicoterapeutici erano in forte contrasto ed anche in competizione tra loro.
Tra le fazioni i cognitivisti accusavano gli psicoanalisti di perdersi in chiacchiere con la scusa di fare terapie inconcludenti che duravano secoli ma che loro definivano necessarie per curare davvero la persona in tutta la sua complessità e profondità;
e gli psicoanalisti accusavano i cognitivisti o comportamentisti di fare terapie eccessivamente concentrate sui sintomi che funzionavano all’inizio ma che poi alla lunga la malattia sarebbe ricomparsa.
Da parte mia posso dire e confermare che il fatto che la terapia cognitiva comportamentale si preoccupa di curare solo il sintomo è assolutamente falso, oltre che farlo sarebbe inutile.
Credo che tutti i modelli psicoterapeutici ormai si approccino alla persona in quanto tale.
il “sintomo”, rappresenta il problema attivo presentato dal cliente paziente ed esprime la difficoltà, la criticità che si vorrebbe approfondire e risolvere.
Per esempio, non serve che la persona dica: “sono depresso e penso di volermi suicidare tanto tutto è inutile”, per identificare 2 sintomi: Umore basso e assenza di speranza. Il solo fatto di dire: “sono insoddisfatto, penso che mi manchi qualcosa ma non so esattamente cosa”, frase che ogni tanto potremmo pensare e dire tutti” è di per sé sintomatica perché esprime un disagio emotivo. Un disagio emotivo che può essere semplice e lineare o complesso e strutturato ed è da queste prime dichiarazioni che bisogna approfondirne origine e complessità.
Quello che dico sempre è: “cominciamo a raccontarci le cose più facili ed ovvie e poi se non dovesse bastare, approfondiremo senza cadere in facili e magiche interpretazioni.
Esattamente come ispira il principio del rasoio di Occam che alla fine è il principio che orienta la scienza.
Ne hai mai sentito parlare? Te lo racconto brevemente. Ce ne sono mille versioni ma sinteticamente la storia è questa: una volta un signore ha trovato un oggetto dalla forma strana durante degli scavi archeologici e allora tutti gli archeologici, storici e filosofi del mondo si sono riuniti per capire cos’era. Qualcuno diceva è uno strumento di misurazione del tempo, qualcun altro addirittura diceva che serviva ad aprire un portale extra dimensionale per gli alieni. Alla fine, ad un certo punto uno dice: “Signori, è un rasoio. Rilassatevi. Questa pietra prima era affilata e la usavano per farsi la barba”.
Posso confermare che “il profondo” se necessario, è approfondito pure dai comportamentisti, nel momento in cui fanno un’analisi e una valutazione delle esperienze di vita precoci che se particolarmente spiacevoli, hanno potuto predisporre, determinare e condizionare negativamente la crescita della persona.
In ogni caso,
smettiamola di cadere nel tranello fomentato ultimamente pure dai vari counselor e coach che dicono che dallo psicologo ci vanno quelli che hanno un disturbo psicologico preciso mentre da loro ci vanno quelli che vogliono parlare di come diventare campioni ricchi e forti.
A parte che non sarebbero capaci di riconoscere chi ha un disturbo psichiatrico da chi non ce l’ha, queste persone giocano a fare gli psicologi esercitando abusivamente la professione.
Ma va bene così, andiamo dove vogliamo. Sono secoli che nella maggior parte dei casi basta andare dal prete o nei casi peggiori dal barbiere.
Psicologia clinica
La Gelosia
Cos’è la gelosia? perché può essere pericolosa? Come si riconosce la gelosia? Come si gestisce e si controlla la gelosia?
A proposito di Gelosia…
Come per le altre emozioni, proviamo a vederci più chiaro.
Cos’è la gelosia? Come funziona? Come la gestiamo?
Sicuramente non sarò esaustivo, non è possibile esserlo in questo modo, ma spero almeno di essere un po’ utile.
Se hai letto gli altri contributi, dovresti sapere che l’attivazione emotiva dipende da come interpretiamo quello che sta succedendo.
Ogni volta che succede qualcosa, la nostra mente osserva, interpreta e giudica. Lo fa continuamente. Se qualcosa per la nostra mente è rilevante, allora attiva l’emozione che ritiene più opportuna. Così facendo, la nostra attenzione selettiva viene coinvolta ed agiamo nel modo che a nostro avviso ci riporterà alla serenità.
D’altra parte,
ogni nostro comportamento potrebbe essere un piano finalizzato all’equilibrio emotivo.
- Ho paura dei cani? L’ansia va su. Entro in macchina? L’ansia va giù.
- Mi sorpassi da destra? La rabbia va su. Ti grido contro? La rabbia va giù.
Ansia e rabbia sono emozioni semplici ed elementari.
Se non l’hai già fatto, potresti leggere cosa sono ansia e rabbia perché la gelosia è complessa e composta prevalentemente da queste due emozioni.
La Gelosia si compone di Ansia, rabbia e una relazione sociale romantica, amicale, familiare, lavorativa, ….
Se l’ansia ci mette in allarme circa una probabile minaccia dalla quale dobbiamo difenderci, la rabbia è la più automatica strategia di difesa.
Quando pensiamo che potremmo essere feriti e quindi crediamo di poter vivere una situazione di pericolo possiamo adottare prevalentemente tre strategie. Non reagire-scappare, reagire male o reagire bene.
Quando non reagiamo, perché pensiamo che tanto sarebbe inutile tanto non avremmo scampo, allora cominciamo a diventare tristi rassegnandoci all’inevitabile perdita.
Se invece scegliamo di reagire uno dei modi per farlo male è quello di attaccare.
Ci arrabbiamo quando pensiamo che una regola che per noi è importante è stata infranta e soprattutto se a causa di questa violazione stiamo perdendo una cosa importante.
- Mi superi a destra. Non si fa. Potevo farmi male. Ti inseguo gridando perché devo illudermi di poterti ferire (rabbia).
Adesso sono sicuro che stai cominciando a capire cos’è la gelosia.
- Tu sei mia. Quello che fai non si fa. In questo modo potrei perderti. Devo difendermi. (Ansia+Rabbia).
- hai salutato a quello? Quello ti vuole. Non dovevi parlargli tutto sto tempo. Io non do la colpa a quello. Io do la colpa a te. Sei una XXX.
Nel “geloso”, non bisogna inoltre trascurare una certa insicurezza e sensazione di vulnerabilità trascurata e non del tutto consapevole.
“Se tu sei mia, ma posso perderti è perché probabilmente io non sono abbastanza forte da saperti conservare”.
Come ogni altra emozione, anche la gelosia agisce su vari livelli. Può andare dal semplice fastidio e dalla semplice irritazione che al massimo ci fa mettere il broncio per un po’, alla sensazione di disperazione più estrema con ira funesta che distrugge tutto ciò che di più caro abbiamo vicino solo per avere quell’effimero ma potentissimo sollievo immediato. Le conseguenze dopo quel sollievo le conosciamo tutti.
La catena comportamentale potrebbe essere questa:
- Regola fortissima. Rigida doverizzazione.
- Frustrazione
- Catastrofizzazione
- Giudizio
Ad esempio: Tu devi fare così, così e così. Invece fai questo, questo e questo. (REGOLE); Perché se non fai così io non lo sopporto e non posso sopportarlo (FRUSTRAZIONE); In questo modo tutto sarà un disastro più totale ed un casino assoluto (CATASTROFIZZAZIONE); In questo modo tu sei una XXXXXX ed io faccio la figura del XXXXXXXX (GIUDIZIO); Tutto questo non posso accettarlo e lo impedirò.
La gelosia è strana perché spesso ci fa amare la stessa cosa che ci spaventa.
Altre volte si riversa su altre: amo te ma sono geloso di Y.
Tutto quello che ci siamo detti, naturalmente non riguarda solo gli uomini.
Riconoscere le proprie emozioni, i propri pensieri ed i propri comportamenti anche in questo caso è quindi necessario per ritrovare una maggiore e più adeguata serenità.
Sò che la gelosia non si esaurisce in queste poche righe. Per me era solo importante riuscire a definire in confini dentro il quale la gelosia si muove.
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